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5 racconti per 5 giorni

Mercoledì: David Means

Ogni volta che veniva paragonato ai grandi scrittori americani contemporanei, David Means rispondeva che la differenza più importante con la maggior parte degli altri autori fosse il fatto che lui era un padre casalingo, che aveva due gemelli e che per anni li aveva seguiti da vicino, che aveva passato le giornate a mettere a posto la casa, a guidare di qua e di là, che in pratica aveva scritto nei ritagli di tempo, in mezzo a tutte queste attività familiari.

Piccole e innocenti vanità d’autore, forse. Tanto che con la raccolta di racconti ‘Episodi incendiari assortiti’ pubblicata nel 2000 negli Stati Uniti, David Means è stato un vero e proprio caso letterario, ha vinto numerosi premi prestigiosi, è stato finalista al premio Pulitzer e ha avuto lodi e complimenti da grandi scrittori come Jonathan Franzen o Aimee Bender.

Gli episodi incendiari del titolo non sono altro che quelle brevi fiammate, quelle luci improvvise che illuminano le vite di persone qualunque, protagonisti quasi casuali che vivono in piccole città di provincia e che ad un certo punto vengono strappati all’insignificanza e al buio di una vita anonima dalla cura e dalla grazia con cui lo scrittore ne parla, li osserva. Sono mostrati nel momento significativo in cui qualcosa cambia le loro esistenze: un avvenimento anche minimo, un ricordo, un dettaglio piccolo e apparentemente banale che d’improvviso rivela tutto un mondo nascosto, proprio sotto la superficie.

Le parole del protagonista del racconto ‘Il cacciatore di gesti’ potrebbero essere quelle dell’autore stesso, una sorta di dichiarazione di poetica attraverso la voce di un personaggio che passa le giornate a cercare i gesti della gente, a catturare istanti per prendersene cura, che si interessa al modo in cui le persone vivono la vita di tutti i giorni, i loro gesti, i dettagli, le sfumature di un atteggiamento o di un movimento quotidiano: “A me servivano gesti interi, completi e aggraziati e soprattutto carichi di rivelazione, di meravigliosa e nuda rivelazione.”

Scopriamo presto, con poche parole ma piene di una grazia nostalgica e delicata, che il suo passato e i suoi ricordi sono aggrappati soltanto a due semplici gesti del figlio, gesti puri e perfetti: il primo quando il figlio era un bambino, immerso nella vasca da bagno, con la sua pelle rosa e scivolosa, l’odore del sapone, gli spruzzi d’acqua, il suo sorriso ingenuo; e il secondo, un anno prima che morisse in guerra, durante una battuta di pesca insieme, padre e figlio: il padre che tira la lenza che ondeggia e si aggancia al polso del figlio, e il figlio, che prova dolore certamente, dal polso esce anche del sangue, che si limita a scrollarsela di dosso e a pulirsi il sangue, un gesto semplice accompagnato da un sorriso appena accennato, un movimento fluido, aggraziato. E il padre da allora non ha più pescato, e porta dentro di sé tutta l’amarezza di un ‘dolore eterno e sconfinato’ che ha provocato al figlio, poco prima che il ragazzo andasse a morire lontano da casa. Sentiamo tutto lo spessore del suo dolore, di quel ‘prima di morire in guerra’: quel lontano episodio, apparentemente banale, acquista così una valenza inaspettata e profonda.

Una vita a cercare di rinnovare quella perfezione, tutta la vita ad osservare i gesti degli altri per scoprirne un altro perfetto, carico di illuminazione, e quando finalmente pensa di averlo trovato in un abbraccio disperato di una coppia davanti a una vetrina di pompe funebri – per la prima volta dopo anni lo assale il dolore del suo lutto, un gesto isolato da tutto il resto che riesce a restituirgli il dolore che gli appartiene di diritto – ecco che si accorge di una macchina da presa e di un regista che riprende la scena di finzione, di tante comparse in giro per le strade e delle luci. È impossibile per lui trattenersi: “Non era forse un crimine provare un dolore finto e piangere un lutto finto? Cos’altro avrei dovuto fare?”