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Quanto pesa la solitudine: Liz Moore

“Sono attratta dalle persone che vivono nell’ombra della società, in una sorta di territorio bianco. Arthur è una specie di eremita, nel senso sacro del termine. Ha un isolamento rituale, quasi liturgico. Kel invece si porta addosso una solitudine che stride: è un atleta perfetto, è bello, è famoso tra i ragazzi della scuola. Ma nonostante questo è davvero solo, perché si sente slegato dal sistema. Ecco, credo che questo romanzo sia un omaggio alle forme della solitudine e ai rapporti che si rincorrono”.

I due personaggi, a cui la scrittrice Liz Moore fa riferimento, sono i protagonisti del suo bellissimo romanzo dal titolo ‘Il peso’, pubblicato da poco dall’editore Neri Pozza. Liz Moore è una giovane musicista e ha trasferito nella sua storia una sorta di musicalità, di armonia, una scrittura che richiama alla partitura musicale di cui parlava Marguerite Duras quando definiva lo scrivere: il racconto è affidato a due voci separate che raccontano la propria storia e che si rincorrono, si alternano, fino ad incontrarsi e a fondersi in una sola voce di speranza e di fiducia nel futuro.

Arthur Opp è un omone gentile e solitario, un ex professore universitario che un giorno, a causa di una scena fortuita a cui assiste per strada e che aggrava semplicemente il suo stato d’animo sensibile e ferito, decide di non uscire più da casa sua e di passare il tempo tra il divano, la tv, le stanze dove è cresciuto, riempendosi di qualsiasi tipo di cibo tanto da arrivare a pesare più di due quintali. “Il cibo come antidoto alle ferite del mondo” dice giustamente Marco Missiroli. Finché un giorno gli arriva una lettera che rompe quel lungo silenzio: la scrive Charlene, una sua ex studentessa dei tempi dell’università, sua amica per tanti anni, amica di penna dopo esserlo stata per un po’ di tempo durante il suo semestre di studio: Charlene sente di non poter andare avanti e così vorrebbe affidargli suo figlio Kel, bravissimo a baseball ma non altrettanto nello studio. La speranza per Arthur passa attraverso due donne, Charlene prima e la piccola Yolanda subito dopo, una ragazza che aspetta un bambino, esile ma tenace, giovane ma forte, è lei che porta per la prima volta dopo 10 anni il professore fuori casa, in strada fino al parco, dove insieme osserveranno tante famiglie che passeggiano sotto quel cielo terso di dicembre e potranno ammirare, da una panchina occupata quasi interamente dal fisico straripante di lui, un tramonto viola che riscalda. Piccoli piaceri nascosti e quasi dimenticati sotto la polvere di anni passati a cercare di difendersi dal mondo esterno.

Kel è cresciuto solo con la madre, è malata, alcolizzata, fragile, si sente perso senza di lei, il peso della sua solitudine e della sua paura del vuoto ci tocca e commuove. Anche Arthur è cresciuto da solo, la madre la ricorda appena, il padre non lo vede da tempo, ormai con una nuova famiglia e con una carriera di architetto che lo ha reso ricco e famoso.

È lo stesso professore che, attraverso le parole che scrive a Kel, ci fa capire che i legami che fanno del bene possono andare oltre i semplici vincoli di sangue, ed è questo il messaggio più bello del romanzo: “Per tutta la vita mi sono sentito ripetere che uno non può scegliersi la famiglia, e per tutta la vita mi sono ripetuto che è una cosa vera e ingiusta. Ma credo che sia possibile guardare le cose da un punto di vista diverso: credo che possiamo scegliere di circondarci di persone che amiamo e ammiriamo e che queste possano diventare la nostra famiglia adottiva”.