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La doppia anima in Goethe, Proust e Mann

Di molti scrittori analizziamo le opere, i personaggi, le tematiche ricorrenti, lo stile. Ma di quanti conosciamo la vita? I condizionamenti della famiglia, dell’educazione ricevuta, dell’infanzia? Mi appassiona da sempre scovare suggestioni, influenze, debiti e sfumature nella loro esistenza, umana e artistica.

Nei tre grandi della letteratura europea, J. Wolfgang Goethe, Marcel Proust e Thomas Mann, si può individuare la convivenza di due anime opposte, bagagli e simboli della diversità di spirito e di carattere dei genitori e dunque dell’ambiente in cui sono nati.

Su Goethe, Freud ha scritto un lungo saggio in cui sceglie e analizza un episodio della sua infanzia, l’unico aneddoto raccontato dallo stesso scrittore in cui da piccolo, affacciato alla finestra, si diverte a buttare in strada utensili, brocchette, piatti, vasellame, stoviglie. Ogni cosa finisce in frantumi sulla via. Secondo il padre della psicanalisi fu la nascita di un fratellino a spingere Goethe bambino a quell’azione eversiva e sfrontata, come a voler inconsciamente buttar fuori di casa l’intruso che poteva scompigliare la sua vita privilegiata, piena dell’amore della madre e dell’unica sorella. “Un bambino sa che un’azione del genere è male e provocherà una punizione da parte dei genitori, ma se non si lascia frenare da questa consapevolezza probabilmente vuole sfogare il suo rancore nei loro confronti, mostrarsi cattivo”. In realtà la gelosia competitiva tra fratelli non ebbe mai modo di esacerbarsi perché nessun bambino, oltre lui e la sorella, sopravvisse nella loro famiglia: ne morirono ben quattro precocemente, solo uno raggiunse i sei anni, gli altri morirono a un anno, due o addirittura a pochi mesi dalla nascita. Dal padre, ricco ed esigente, lo scrittore ereditò la serietà, l’amore per l’ordine, la coscienziosità, il senso del dovere; dalla madre la socievolezza, la fantasia. Secondo Freud, Goethe è cresciuto nella bolla d’amore della madre, figlio prediletto e incontestato, e da questo idillio protetto e affettuoso ha tratto la sicurezza, il sentire da conquistatore, la fiducia nel successo, la creatività.

Anche Proust incarna la convergenza di due discendenze profondamente diverse: il padre è un medico borghese, professore di Igiene alla facoltà di Medicina, solido, apprezzato e noto a livello internazionale, un po’ burbero e con sprazzi di generosità inattesi e arbitrari; la madre e la nonna sono invece due figure anticonvenzionali per l’epoca, di un’intelligenza vivace e rara e appartenenti a una famiglia ebrea di alto lignaggio: furono loro a iniziare lo scrittore all’amore per la letteratura, la musica e l’arte, a infondergli il tocco ironico, l’acutezza dell’osservazione. Con la madre, dolce e indulgente, usava fare il gioco delle citazioni, un passatempo che aveva creato codici di comunicazione tali da far sentire escluso chiunque non facesse parte del clan. Di tutta la famiglia, l’unico che non compare nella monumentale opera “Alla ricerca del tempo perduto” è il fratello Robert: cancellando il suo ‘doppio’, Proust ha forse voluto scartare un’ulteriore miccia di quella gelosia divorante manifestata più volte. Unico beneficiario dell’affetto della madre, raddoppiata dalla figura della nonna, il narratore può così diventare il solo centro di tutto, un amante tirannico.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Già nella seconda metà del Settecento i Mann vivono e prosperano a Lubecca, sono cittadini autorevoli, notabili della repubblica e facoltosi mercanti, imprenditori e armatori di successo, proprietari di terreni, magazzini e di una casa poi celebrata nel romanzo “I Buddenbrook”. Thomas Mann nacque a Lubecca nel 1875, in questo ambiente di ricca borghesia privilegiata; il padre è senatore e notabile di prestigio, la madre invece ha origini tedesco-brasiliane, è nata in Brasile, e di queste radici conserva le memorie e le nostalgie latine, il colore scuro di occhi e capelli, l’amore per l’arte, il talento musicale, una figura inconsueta dunque, differente da tutti. Un’unione, quello tra la creola bella e creativa e il senatore severo e serio, che sicuramente aveva provocato un piccolo scandalo nell’ambiente borghese rigido, snob e un po’ ottuso. I Mann erano una famiglia complessa, segnata dal suicidio delle due sorelle minori di Thomas e con il padre che morì improvvisamente quando l’ultimo nato aveva soltanto pochi mesi. Una morte precoce, un padre che doveva pure covare in sé il seme di un dissidio e di una diversità che lo avevano spinto ad amare una “straniera”, una vita faticosa la sua, con una conflittualità interiore che rivive nel dramma del senatore Buddenbrook. Questo padre che dovette assistere impotente e stupito alla vocazione artistica dei due figli maggiori, Thomas e il fratello, indifferenti al commercio e al dovere morale di portare avanti l’impresa di famiglia. Quando morì infatti, tutto quello che aveva costruito, sommato all’eredità delle generazioni che lo avevano preceduto, venne distrutto, la ditta fu liquidata e tutti i beni venduti. In Thomas Mann convivono le due anime della famiglia: quella artistica e creativa della madre e quella paterna del controllo, dell’austerità, del lavoro quotidiano costante e inflessibile che lui mise nella scrittura. Tanto che quando il suo primogenito si suicidò, rinnovando un’inquietante e dolorosa inclinazione famigliare, Thomas Mann era in Svezia per una serie di conferenze e non si sottrasse agli obblighi sociali e professionali, con un senso del dovere all’apparenza freddo, cinico persino.

Insomma, nel bene e nel male non si sfugge facilmente alle impronte famigliari. Come scrisse Marcel Proust “Abbiamo ricevuto dalla nostra famiglia le idee di cui viviamo così come la malattia di cui moriremo”.

(Roberta Di Pascasio per AbruzzoLive)